F.A.Q.

Frequently Asked Questions

Qui puoi trovare delle prime risposte ai principali dubbi che di sovente sorgono per una corretta gestione del rapporto di lavoro.
Abbiamo deciso di raccogliere e mettere a disposizione le domande e risposte che più di frequente vengono poste dai clienti al nostro Studio di Consulenza del Lavoro

L’assunzione di un nuovo lavoratore dipendente va progettata con anticipo in quanto il datore di lavoro, anche tramite il consulente del lavoro, deve comunicare l’instaurazione del nuovo rapporto di lavoro al Ministero del Lavoro tramite una procedura telematica gestito dalla Regione territorialmente competente.

La comunicazione obbligatoria telematica è utile ai fini dell’assolvimento di tutti gli obblighi di comunicazione nei confronti dei vari enti (INPS, INAIL, INL).

In caso di particolare urgenza, la comunicazione viene effettuata in due tempi:

1) in forma sintetica il giorno antecedente l’instaurazione del rapporto;

2) in forma completa entro i 5 giorni successivi

I documenti possono variare lievemente sulla base alla tipologia di assunzione ma nella generalità dei casi i documenti che servono sono:

  • Carta di identità (o documento equipollente);
  • Codice fiscale;
  • Curriculum vitae;
  • Eventuali attestati di formazione e/o patentini di idoneità se necessari per lo svolgimento di particolari attività lavorativa (es.: guida del muletto, formazione per lavori che prevedono rischi particolari, etc.).

All’atto dell’assunzione il datore di lavoro deve fornire, per iscritto, al lavoratore le seguenti informazioni:

  • L’identità delle parti;
  • Il luogo dove dovrà essere svolta la prestazione lavorativa;
  • La data di inizio del rapporto di lavoro;
  • La durata del rapporto di lavoro (precisando se si tratta di un rapporto a tempo determinato o indeterminato;
  • La durata dell’eventuale periodo di prova;
  • L’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti o, in alternativa, una descrizione sommaria dell’attività lavorativa);
  • L’importo iniziale della retribuzione e i relativi elementi costitutivi, con l’indicazione del periodo di pagamento;
  • La durata delle ferie retribuite e le modalità di fruizione delle stesse;
  • L’orario di lavoro;
  • I termini di preavviso in caso di recesso.

Questo obbligo viene assolto mediante la consegna del contratto individuale di lavoro che viene solitamente predisposto dallo Studio di consulenza del lavoro.

Al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro deve consegnare al lavoratore copia della lettera di assunzione che dovrà essere firmata prima dell’inizio dell’attività lavorativa sia dal lavoratore sia dal datore di lavoro.

Inoltre, devono essere consegnati al neoassunto i moduli per la scelta della destinazione del TFR, i moduli della privacy per il trattamento dei dati personali e i moduli per la richiesta delle detrazioni di imposta.

Quando il rapporto di lavoro di cui si è data comunicazione preventiva non si instaura effettivamente, il datore di lavoro deve informare la Regione competente con tempestività, e comunque non oltre i 5 giorni successivi.

L’inserimento di un patto di prova nel contratto individuale di lavoro è finalizzato a consentire al datore di lavoro e al lavoratore di valutare la reciproca convenienza del rapporto di lavoro instaurato.

Il patto di prova deve risultare da atto scritto; in caso contrario, lo stesso è nullo e viene considerato come non apposto.

Per essere valido il patto di prova deve contenere l’indicazione precisa e dettagliata delle mansioni affidate al lavoratore.

In generale si può affermare che durante il periodo di prova sia il datore di lavoro sia il lavoratore sono liberi di recedere dal contratto in qualsiasi momento senza obbligo di motivazione, di preavviso o di pagamento della relativa indennità sostitutiva.

Particolare attenzione dovrà essere osservata nel recesso durante il periodo di prova di un apprendista.

Come comunico la mia volontà di recedere durante il periodo di prova?

Poiché il rapporto non è ancora divenuto definitivo, non è richiesta dalla legge la forma scritta.

Tuttavia, il solo recesso in forma orale, è fortemente sconsigliato in quanto è sempre utile avere la lettera di recesso firmata ai fini della prova della data di comunicazione.

In generale si, il recesso intimato durante il periodo di prova è libero.

Esso è però considerato illegittimo quando:

La prova non è stata in concreto consentita (ad esempio: la verifica è stata condotta su mansioni diverse da quelle comunicate nella lettera di assunzione; il lavoratore dimostra che il periodo di tempo era inadeguato a permettere un’idonea valutazione delle sue capacità);

il licenziamento è riconducibile a motivi illeciti (es. discriminatori o ritorsivi) o estranei al rapporto di lavoro.

La durata del periodo di prova è determinata dai contratti collettivi, sulla base della categoria e livello di inquadramento del lavoratore.

In genere il periodo di prova non può essere prorogato.

Al verificarsi di taluni eventi (es. malattia, infortunio, ferie, sciopero, etc.) la prova può essere sospesa e ripresa al rientro del lavoratore.

Al termine del periodo di prova se l’attività lavorativa prosegue anche di un solo giorno, l’assunzione diviene definitiva.

Non è necessario che il datore di lavoro renda esplicita la sua volontà di confermare il lavoratore tramite una lettera formale di superamento della prova.

Il patto di non concorrenza obbliga il lavoratore a non svolgere, successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro e per un periodo di tempo determinato, qualsiasi attività lavorativa in concorrenza con il precedente datore di lavoro, in proprio o alle dipendenze di altri.

Tale patto deve:

  • essere redatto in forma scritta;
  • contenere dei vincoli di oggetto, luogo e tempo;
  • prevedere un congruo corrispettivo a favore del lavoratore, proporzionato all’obbligo imposto.

La durata del patto di non concorrenza non può essere superiore a 3 anni (5 per i dirigenti), che decorrono dal primo giorno successivo alla cessazione dell’attività lavorativa. L’eventuale maggiore durata si riduce di diritto a quella massima (3 o 5 anni).

In caso di violazione del patto di non concorrenza, l’imprenditore può richiedere la restituzione di quanto già erogato al lavoratore e chiedere il risarcimento dei danni.

Il contratto di apprendistato è un contratto (c.d. formativo) utile alla formazione e all’occupazione dei giovani.

L’assunzione di un apprendista prevede di redigere un Piano di Formazione Individuale (PFI) ovvero un programma calendarizzato nel quale sono esplicitati gli argomenti che dovranno essere trasmessi e appresi dall’apprendista.

Il designato alla formazione dell’apprendista è il tutor. Tale soggetto è il referente interno all’azienda individuato dal datore di lavoro con competenze adeguate a formare l’apprendista.

Alla formazione interna, è integrata, nei limiti delle risorse disponibili, dall’offerta formativa pubblica, finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte ore complessivo non superiore a 120 nell’arco del triennio.

L’offerta formativa pubblica è di competenza regionale e tiene conto del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista.

I datori di lavoro che assumono apprendisti avranno dei vantaggi contributivi per un determinato periodo di tempo ma devono rispettare i limiti numerici stabiliti dalla legge e dalla contrattazione collettiva per garantire un’adeguata formazione e affiancamento del lavoratore.

Il contratto di apprendistato può anche essere finalizzato alla qualificazione o riqualificazione professionale di lavoratori beneficiari di un trattamento di disoccupazione (oggi, NASPI).

  • aliquote contributive INPS ridotte;
  • possibilità di sotto-inquadrare il lavoratore o di retribuirlo in percentuale rispetto al livello di destinazione finale;
  • non computabilità nell’organico aziendale.

Il numero complessivo di apprendisti che il datore di lavoro può assumere è stabilito tenendo conto dei dipendenti qualificati o specializzati presenti in azienda:

  • fino a due (dipendenti qualificati o specializzati presenti in azienda): massimo 3 apprendisti;
  • da tre (dipendenti qualificati o specializzati presenti in azienda) in poi: è necessario distinguere in base alla dimensione aziendale.

    • Per i datori di lavoro fino a 9 dipendenti: 100% dei qualificati (se, ad esempio, ci sono 8 dipendenti qualificati, possiamo assumere 8 apprendisti); 
    • Per i datori di lavoro oltre i 9 dipendenti: ogni 2 dipendenti qualificati, è possibile assumere 3 apprendisti (se, ad esempio, ci sono 12 dipendenti, è possibile assumere 18 apprendisti).
NOTA BENE: i contratti collettivi possono prevedere limiti diversi.

In generale, l’apprendistato è destinato ai giovani tra i 15 e i 29 anni.

I limiti di età variano a seconda del tipo di apprendistato:

  • per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (c.d. apprendistato di primo livello): minimo 15 e massimo 25 anni;
  • professionalizzante (apprendistato di secondo livello): minimo 18 e massimo 29 anni;
  • di alta formazione e di ricerca (apprendistato di terzo livello): minimo 18 e massimo 29 anni.

Non ci sono limiti di età per chi beneficia di un sostegno alla disoccupazione (es. chi beneficia della c.d. NASPI).

Nel caso non si sia provveduto a formare adeguatamente l’apprendista o non si riesca a provare all’organo ispettivo il rispetto del calendario formativo come da Piano Formativo Individuale redatto in fase di assunzione, le sanzioni sono particolarmente pesanti. È previsto infatti il versamento di tutta la differenza tra la contribuzione pagata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100%.

Si, come tutti i lavoratori a tempo indeterminato, qualora vi sia giustificato motivo, è possibile licenziare anche un apprendista.

Inoltre, è possibile licenziare liberamente il lavoratore al termine del periodo di formazione previsto (questo non è possibile per gli apprendisti assunti in quanto percettori di indennità di disoccupazione).

Il tirocinio (o stage) non configura un rapporto di lavoro, ma costituisce un’esperienza formativa e di orientamento al lavoro attraverso l’inserimento del soggetto nella realtà aziendale.

Per lo svolgimento del tirocinio è necessaria la stipula di una convenzione tra:

  •       ente promotore (es.: centri per l’impiego, istituzioni scolastiche);
  •       soggetto ospitante (es.: un’azienda)

corredata da un progetto formativo che definisce i diritti e i doveri delle parti coinvolte.

La durata può variare in base alla tipologia di tirocinio e di tirocinante ma in generale per i tirocini extra curriculari la durata massima è di 6 mesi.

Il tirocinante ha diritto al riconoscimento di un’indennità di partecipazione all’esperienza formativa (ogni regione prevede un importo minimo).

Il datore di lavoro ospitante che intende attivare un tirocinio deve prima controllare di:

rispettare la normativa sul collocamento obbligatorio dei disabili (L. 68/99);

  •  Essere in regola con la normativa sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
  •  Non avere effettuato licenziamenti nella medesima unità operativa e nei 12 mesi precedenti l’attivazione del tirocinio;
  • Non avere procedure di CIGS o di cassa in deroga in corso per attività equivalenti a quelle del tirocinio nella medesima unità  operativa;
  • Non avere in corso procedure concorsuali;
  • Non essere un professionista abilitato o qualificato all’esercizio di professioni regolamentate che utilizza il tirocinio per attività tipiche o riservate alla professione.

 

I soggetti idonei ad attivare un tirocinio (ed divenire dunque stagisti o tirocinanti), sono:

  •     disoccupati;
  •     lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro;
  •     lavoratori a rischio disoccupazione;
  •     soggetti già occupati in cerca di nuova occupazione;
  •     disabili;

      persone svantaggiate.

L’organo di vigilanza andrà a verificare la genuinità del tirocinio controllando che le modalità concrete di svolgimento dello stesso siano idonee e funzionali all’apprendimento e non all’esercizio di una mera prestazione lavorativa.

Le irregolarità che compromettono la natura formativa del tirocinio sono:

  • lo svolgimento di attività che non necessitano di un periodo formativo;
  • l’assenza di una convenzione o del progetto formativo individuale (PFI);
  • la violazione dei requisiti soggettivi.

In tali casi, il tirocinio è riqualificato come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

, è possibile assumere un lavoratore di età inferiore a 18 anni ma a talune condizioni tassativamente individuate dalla legge e con particolari tutele in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Salvo casi particolari (inerenti al settore sportivo e dello spettacolo) il lavoro subordinato è generalmente consentito alle seguenti condizioni:

  •       compimento dei 16 anni di età;
  •       assolvimento dell’obbligo scolastico.

Unica eccezione è prevista per gli adolescenti che hanno compiuto 15 anni che possono stipulare un contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale.

In virtù della rafforzata tutela in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, salvo particolari eccezioni, i minori non possono essere adibiti a lavorazioni e a processi produttivi ritenuti particolarmente pericolosi o gravosi (ad esempio, lo svolgimento di mansioni che espongono ad agenti chimici, fisici o biologici).

Sono inoltre previste limitazioni in merito all’orario di lavoro.

In particolare la durata massima dell’orario di lavoro non potrà superare le 8 ore giornaliere e 40 settimanali. Sono fatte salve le disposizioni di miglior favore contenute nei contratti collettivi.

Attenzione: i quindicenni assunti con contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale (primo livello) possono effettuare un orario di lavoro non superiore alle 7 ore giornaliere e 35 settimanali.

Riposi: è altresì previsto che dopo 4 ore e mezza di lavoro il minore ha diritto ad un riposo di almeno un’ora (in casi particolari tale riposo può essere di mezz’ora).

Salvo eccezioni particolari, ai minori deve essere assicurato un periodo di riposo settimanale di almeno 2 giorni, possibilmente consecutivi, e comprendente la domenica.

Lavoro notturno: in via generale i minori non possono essere adibiti al lavoro notturno.

Si, prima di adibire i minori al lavoro, il datore di lavoro deve effettuare la valutazione dei rischi, ed eventualmente integrare il DVR, con particolare riferimento a:

  • mancanza di esperienza e consapevolezza nei riguardi dei rischi lavorativi in relazione all’età;
  • attrezzature e sistemazione del luogo e del posto di lavoro;
  • natura, grado e durata di esposizione agli agenti chimici, biologici e fisici;
  • movimentazione manuale dei carichi;
  • sistemazione, scelta, utilizzazione e manipolazione delle attrezzature di lavoro;
  • pianificazione dei processi di lavoro;
  • situazione della formazione e dell’informazione.

Inoltre, prima di essere adibiti al lavoro, i minori devono essere riconosciuti idonei all’attività lavorativa cui saranno adibiti tramite apposita visita medica preassuntiva. Successivamente la visita medica deve essere ripetuta periodicamente, ad intervalli non superiori a un anno.

Si, la variazione temporanea del luogo di lavoro è uno dei poteri unilaterali del datore di lavoro.

Gli unici limiti riscontrabili a tale potere sono quelli di legge, ovvero:

  •       correttezza e buona fede;
  •       non discriminazione o ritorsione;
  •       salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

È essenziale però che la variazione abbia carattere temporaneo.

No, non è necessario il consenso del lavoratore.

Come già detto il mutamento temporaneo del luogo di lavoro è un potere unilaterale del datore di lavoro.

, è possibile mutare anche in maniera definita il luogo di lavoro.

In tal caso però non si tratterà di trasferta ma di trasferimento e vengono dunque imposti dei requisiti particolari, quali:

  • il trasferimento avvenga da un’unità produttiva ad un’altra nell’ambito della stessa azienda;
  • il trasferimento sia motivato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

I contratti collettivi possono stabilire che il trasferimento sia preceduto da un determinato periodo di preavviso o prevedere condizioni particolari per la generalità dei dipendenti o ad alcune categorie di essi.

In via generale non è necessario il consenso del lavoratore.

Il datore di lavoro non potrà, invece, provvedere autonomamente al trasferimento del lavoro nei seguenti casi:

  • trasferimento di dirigenti di RSA o RSU per i quali è necessario il nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza. In difetto, il trasferimento è da ritenersi nullo. La tutela opera sino alla fine dell’anno successivo a quello della cessazione dell’incarico;
  • i lavoratori maggiorenni con grave disabilità e i lavoratori che assistono familiari disabili non possono essere trasferiti in altra sede senza il loro consenso.

La variazione della sede di lavoro rientra tra le comunicazioni obbligatorie che vanno effettuate al ministero del Lavoro.

Il trasferimento dev’essere comunicato entro 5 giorni attraverso una procedura online.

Al fine di valutare se il c.d. “tempo tuta” occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica ed alle prescrizioni del datore di lavoro.

In particolare, bisogna valutare se:

  1. Il lavoratore ha la facoltà di scegliere il tempo e il luogo nei quali indossare la divisa: in questo caso non vi è obbligo di retribuzione;
  2. Il datore di lavoro impone il tempo e il luogo di vestizione: in questo caso tale tempo rientra nel lavoro effettivo, e dovrà dunque essere retribuito.

In generale il lavoratore, nel rispetto di limiti ben definiti, deve accettare la richiesta del datore di lavoro di prestare ore di lavoro straordinario.

La maggior parte dei contratti collettivi di lavoro disciplinano il ricorso al lavoro straordinario.

Esistono, però, delle eccezioni alla regola generale:

  •     lavoratore studente;
  •     presenza di un giustificato e comprovato motivo di rilevante gravità che impedisce al lavoratore la prestazione;
  •     la richiesta del datore di lavoro lede i principi di correttezza e buona fede.

Inoltre il ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto.

L’orario di lavoro non potrà inoltre superare la media 48 ore settimanali.

Secondo la suprema Corte di Cassazione inoltre è legittimo il rifiuto di un lavoratore, svolgere lavoro straordinario dopo solo 8 ore dalla fine del turno, quando la richiesta del datore di lavoro non sia giustificata da ragioni aziendali prevalenti.

Cercando di semplificare, le ore di lavoro straordinario prestato dal lavoratore possono essere accantonate nella banca ore e fruite successivamente come permessi. In sostanza, la banca ore è una sorta di “portafoglio virtuale”, un conto individuale dal quale il lavoratore può attingere per fruire dei riposi compensativi corrispondenti alle ore lavorate in più.

La possibilità di utilizzo della banca delle ore deve essere prevista dalla contrattazione collettiva che ne regolamenta le modalità di attuazione.

Nel caso la contrattazione collettiva non regolamenti la banca delle ore le parti potranno comunque ricorrere all’utilizzo di tale istituto ma si consiglia la certificazione della clausola di flessibilità per mezzo delle apposite commissioni.

No, la trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time, e viceversa, deve essere stipulato in accordo con il lavoratore.

No, in generale la trasformazione dell’orario di lavoro a tempo parziale deve avvenire sempre in accordo tra le parti.

A questa regola generale però vi sono alcune eccezioni, tra le quali:

  • Pazienti oncologici o con gravi patologie: i lavoratori affetti da patologie oncologiche, nonché da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i quali ci sia una ridotta capacità lavorativa (eventualmente anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita) accertata da una commissione medica istituita presso l’ASL territorialmente competente, hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale. Il rapporto di lavoro a tempo parziale dovrà essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno su richiesta del lavoratore.
  • Congedo parentale: il lavoratore può chiedere per una sola volta in luogo del congedo parentale la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno in rapporto a tempo parziale, entro i limiti del congedo ancora spettante, purché con una riduzione di orario non superiore al 50%. Il datore di lavoro è tenuto a dar corso alla trasformazione entro 15 giorni dalla richiesta.

A differenza dei contratti di lavoro a tempo pieno, nel contratto part-time la collocazione oraria deve essere indicata puntualmente. Oltre la durata ridotta della prestazione lavorativa, la collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.

In generale, la variazione delle fasce orarie indicate in precedenza potrà avvenire solo in accordo con il lavoratore.

L’accordo può essere raggiunto sia al momento del verificarsi dell’esigenza di modifica, sia in via anticipata (generalmente al momento della sottoscrizione del contratto) attraverso le c.d. clausole elastiche.

La regolamentazione delle clausole elastiche non è libera, ma è necessario che tale disciplina sia prevista dalla contrattazione collettiva.

Se la contrattazione collettiva non disciplina le clausole elastiche l’accordo tra le parti che preveda l’apposizione di clausole elastiche deve essere certificata presso le Commissioni di certificazione.

Si, nel rispetto della contrattazione collettiva.

I contratti collettivi possono stabilire:

  •     il numero massimo delle ore di lavoro supplementare effettuabili;
  •     le conseguenze del superamento delle ore di lavoro supplementare;
  •     le eventuali maggiorazioni per le prestazioni di lavoro supplementare, come ad esempio il computo convenzionale dei riflessi sugli istituti retributivi indiretti e differiti della retribuzione per le ore supplementari mediante l’applicazione di una maggiorazione forfettaria.

Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni supplementari in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate. In tali ipotesi il lavoro supplementare è retribuito con una percentuale di maggiorazione sull’importo della retribuzione oraria globale di fatto pari al 15%, comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti.

In via generale è il datore di lavoro che stabilisce il periodo di fruizione delle ferie e le relative modalità di fruizione, tenendo conto però sia delle esigenze dell’azienda che degli interessi dei lavoratori.

Il datore di lavoro ha l’obbligo di concedere ai lavoratori almeno 2 settimane di ferie continuative nell’anno di maturazione ed ulteriori 2 settimane nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione.

No, non è mai possibile pagare le ferie non godute se non alla cessazione del rapporto di lavoro.

No, i permessi c.d. ROL o PAR sono nella sola disponibilità del lavoratore.

Se la lavoratrice svolge attività considerate pericolose come quelle che prevedono l’utilizzo di agenti fisici, chimici e biologici nocivi, allora deve essere adibita a mansioni diverse ritenute non rischiose per il periodo della gravidanza.

Il DVR contiene al suo interno le attività che in azienda sono ritenute a rischio per la lavoratrice in stato di gravidanza.

Nel caso in cui l’attività sia elevatamente rischiosa, la nuova mansione dovrà essere mantenuta fino al 7° mese dopo il parto.

Le mansioni alternative potranno anche essere inferiori, purché siano mantenute inalterate la qualifica e la retribuzione.

Nel caso in cui non sia possibile il ricollocamento ad altre mansioni, la lavoratrice incinta deve usufruire dell’astensione anticipata dal lavoro per attività rischiose.

Inoltre, alla lavoratrice madre è vietato lo svolgimento di lavoro notturno (ovvero l’orario di lavoro compreso tra le ore 24 e le ore 6 del mattino) durante il periodo di gravidanza e fino a 1 anno dalla nascita del bambino.

Si, la lavoratrice è obbligata a dichiarare lo stato di gravidanza al proprio datore di lavoro. Non sono però previsti obblighi di legge sulle tempistiche e modalità. Ad ogni modo, secondo i principi di correttezza e buona fede la lavoratrice ne dovrebbe dare immediata comunicazione al proprio datore di lavoro.

Si, il legislatore ha previsto questo diritto per tutelare la salute della lavoratrice e quella del nascituro.

Tali visite mediche periodiche di controllo possono ricomprendere: visite prenatali, accertamenti clinici e visite mediche specialistiche.

Il datore di lavoro non può rifiutare la concessione di tali permessi e le assenze non possono essere recuperate.

Non esiste un numero massimo di permessi retribuiti, ma è sufficiente presentare al datore di lavoro un’apposita domanda e la documentazione giustificativa che attesti la data, l’orario e l’effettuazione della visita.

La lavoratrice madre deve presentare, entro i 2 mesi antecedenti la data presunta del parto, un’apposita richiesta sul portale INPS, accedendo con le proprie credenziali (è necessario lo SPID) e selezionando la specifica opzione di congedo; in alternativa è possibile rivolgersi ad un patronato.

Alla nascita del neonato, entro i 30 giorni successivi, la dipendente è tenuta a:

  • comunicare all’INPS la data di nascita effettiva del bambino e le relative generalità;
  • inoltrare al datore di lavoro il certificato di nascita.

L’INPS ha chiarito che, nonostante l’obbligo di tale scadenza, l’indennità verrà comunque riconosciuta.

Si consiglia però fortemente di rispettare le tempistiche richieste dall’Istituto previdenziale per evitare lungaggini burocratiche.

Il congedo di maternità anticipato è l’astensione dall’attività lavorativa prima dei 2 mesi precedenti al parto. È indennizzato dall’INPS come la maternità obbligatoria.

Questo congedo è possibile previo nulla osta da parte:

  •       dell’Ispettorato territoriale del lavoro (ITL) nel caso in cui si tratti di attività o condizioni lavorative pericolose;
  •       dall’ASL in caso di gravidanza a rischio.

In caso di complicazioni della gravidanza, la lavoratrice è tenuta a trasmettere la domanda di astensione anticipata all’ASL, allegando il certificato medico attestante le condizioni di salute. L’ASL, nel termine di 7 giorni approva o respinge la domanda, con relative motivazioni o documentazione da integrare nel termine prefissato di 10 giorni.

Negli altri due casi l’iniziativa può essere della lavoratrice o del datore di lavoro che devono presentare la documentazione richiesta all’ITL (tra cui l’attestazione dell’impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni) perché emetta il provvedimento.

Normalmente il congedo di maternità obbligatoria (della durata complessiva di 5 mesi) è così fruito:

  •       2 mesi precedenti alla data presunta del parto;
  •       3 mesi successivi al parto.

In deroga a tale norma, è riconosciuta la possibilità alla lavoratrice, previa presentazione al datore di lavoro del certificato di un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale e del medico del lavoro competente che attesta la possibilità di continuare l’attività lavorativa senza mettere a rischio la salute della donna e del nascituro, di:

  • suddividere i 5 mesi di congedo obbligatorio previsti in 1 mese prima del parto e 4 mesi post-parto;
  • continuare l’attività lavorativa fino alla data del parto e quindi utilizzare in maniera consecutiva i 5 mesi previsti dopo la nascita del figlio.

Nella generalità dei casi, è il datore di lavoro ad anticipare, per conto dell’INPS, l’indennità per congedo di maternità. Tale anticipo verrà immediatamente compensato con i contributi che il datore di lavoro verserà lo stesso mese tramite il modello F24.

No, l’indennità è pari all’80% della retribuzione media giornaliera (per il calcolo dell’indennità si prende a riferimento la retribuzione del mese precedente).

I contratti collettivi possono comunque imporre al datore di lavoro di integrare l’indennità fino a raggiungere il 100% della retribuzione.

È quello che fino a qualche anno fa veniva chiamato con il nome di maternità facoltativa. Dal momento però che questo congedo è fruibile anche dai lavoratori padri il legislatore ha deciso di cambiare terminologia.

Il congedo parentale è un’astensione facoltativa dal lavoro concessa a ciascun genitore per badare ai propri figli entro i 12 anni d’età.

Il congedo parentale può essere goduto per periodi continuativi oppure frazionati, su base mensile, giornaliera od oraria.

Tale congedo ha una durata massima complessiva di 10 mesi:

  •       massimo 6 mesi per la lavoratrice madre (continuativi o frazionati);
  •       massimo 6 mesi per il lavoratore padre elevabili a 7 mesi nel caso questi si astenga per un periodo (continuativo o frazionato) di almeno 3 mesi;

Nel caso vi sia un unico genitore, il congedo parentale è fruibile per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 11 mesi.

Durante i periodi di congedo parentale l’indennità è a carico dell’INPS, con anticipo da parte del datore di lavoro.

La misura dell’indennità prevista è pari al 30% della retribuzione media giornaliera per il congedo richiesto.

Dal 01/01/2024 per il congedo parentale fruito entro il sesto anno di vita del bambino l’indennizzo è pari:

  • all’80% per il primo mese di congedo;
  • al 60% per il secondo mese (solo per il 2024 anche il secondo mese è indennizzato all’80%);
  • al 30% per i restanti mesi.

Sono due riposi giornalieri di un’ora ciascuno che possono essere fruiti anche cumulativamente fino ad un massimo di 2 ore al giorno.

Se l’orario di lavoro giornaliero è inferiore alle 6 ore, tale periodo è ridotto ad 1 ora in totale.

No, questi permessi sono indennizzati dall’INPS in misura pari al 100% della retribuzione e sono anticipati dal datore di lavoro che li recupera il mese stesso diminuendo l’importo di contributi INPS da versare con il modello F24.

La risposta è si, ma a patto che venga svolta almeno un’ora di attività lavorativa.

Non è invece possibile fruire di permessi per allattamento e ferie nella stessa giornata in quanto non è possibile fruire le ferie a ore.

Si, in talune circostanze, il padre può fruire dei permessi giornalieri per allattamento:

  • se i figli sono affidati solamente a lui;
  • in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
  • se la madre non è lavoratrice dipendente;
  • in caso di morte o di grave infermità della madre.

Si, la sostituzione di lavoratori in congedo di maternità è una delle causali che permettono la stipulazione di contratti a termine.

Inoltre, i datori di lavoro che occupano fino a 19 dipendenti e assumono un lavoratore in sostituzione di un dipendente assente per motivi legati alla maternità/paternità, possono godere di uno sgravio contributivo pari al 50% dei contributi e dei premi assicurativi INAIL a carico del datore di lavoro, dovuti sulla retribuzione del lavoratore assunto a termine.

Il beneficio spetta fino al compimento di 1 anno di età del bambino del lavoratore sostituito.

No, è previsto il c.d. “periodo di affiancamento” per fare in modo che il sostituto si ambienti e comprenda le esigenze aziendali.

Salvo diversa previsione del contratto collettivo applicato dall’azienda, la durata massima di legge del periodo di affiancamento è di un mese.

In caso di decesso o documentata grave infermità:

  • del coniuge (anche se legalmente separato) o della parte dell’unione civile;
  • di un parente entro il 2° grado (anche non convivente);
  • del convivente, purché la stabile convivenza con il lavoratore o la lavoratrice risulti da certificazione anagrafica

I lavoratori hanno diritto ad un permesso retribuito di 3 giorni lavorativi all’anno (complessivi e non moltiplicabili in caso di più eventi).

Per poterne usufruire, il lavoratore interessato deve comunicare previamente al datore l’evento luttuoso e i giorni nei quali sarà utilizzato il permesso. I giorni di permesso vanno utilizzati entro 7 giorni dal decesso o dall’accertamento dell’insorgenza della grave infermità.

Deve inoltre presentare idonea documentazione del medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato o del medico di medicina generale o del pediatra di libera scelta o della struttura sanitaria nel caso di ricovero o intervento chirurgico.

La certificazione relativa alla grave infermità deve essere presentata al datore di lavoro entro 5 giorni dalla ripresa dell’attività lavorativa del lavoratore o della lavoratrice.

In caso di decesso, il lavoratore è tenuto a documentare l’evento con la relativa certificazione o, nei casi consentiti, con dichiarazione sostitutiva.

Sono indennizzati nella misura del 100% della retribuzione e sono a carico dell’INPS ma anticipati dal datore di lavoro.

I lavoratori hanno diritto ad usufruire di un periodo di congedo retribuito in occasione del matrimonio (o unione civile).

Il congedo ha normalmente durata di 15 giorni consecutivi e dovrà essere richiesto nei giorni immediatamente successivi alla celebrazione delle nozze.

I giorni di congedo devono essere fruiti in un unico periodo consecutivo.

L’INPS, agli operai dipendenti di aziende industriali, artigiane o cooperative, eroga un’indennità pari alla normale retribuzione per un periodo massimo di 8 giorni consecutivi.

Generalmente i CCNL stabiliscono l’obbligo per il datore di lavoro di:

  • integrare tale compenso fino a garantire all’operaio la normale retribuzione per i 15 giorni di durata del congedo;

anticipare al lavoratore anche il trattamento a carico dell’INPS, il cui importo viene conguagliato attraverso il flusso UniEmens entro un anno dalla data del pagamento.

Nella generalità dei casi, salvo condizioni di miglior favore da parte del contratto collettivo applicato:

  •       in caso di malattia per figli fino a 3 anni i genitori possono assentarsi, alternativamente fra loro, per tutta la durata della malattia, senza previsione di limite di durata.

·       per i casi di malattia di figli di età compresa tra i 3 e gli 8 anni, ciascun genitore, se l’altro non usufruisce del medesimo diritto, può astenersi dal lavoro per 5 giorni lavorativi all’anno.

Il genitore, per fruire di permessi per malattia del figlio, deve presentare il certificato di malattia rilasciato da un medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato.

Inoltre, la lavoratrice e/o il lavoratore che desiderino ricorrere al congedo per la malattia del bambino sono tenuti a presentare al datore di lavoro una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (art. 47 DPR 445/2000) dalla quale risulti che l’altro genitore non è in congedo negli stessi giorni per il medesimo motivo.

Salvo condizione di miglior favore da parte della contrattazione collettiva applicata, i periodi di congedo per la malattia del figlio non danno diritto a retribuzione.

Il lavoratore che non sia nelle condizioni psico-fisiche di rendere la prestazione lavorativa è tenuto a comunicarlo tempestivamente al datore di lavoro. Successivamente, per giustificare l’assenza, il lavoratore deve comunicare il numero di protocollo del certificato rilasciato dal proprio medico curante o dal medico libero professionista.

Il certificato medico deve essere redatto lo stesso giorno in cui si verifica l’evento. Solo nel caso in cui sia effettuata una visita a domicilio, il certificato può essere redatto il giorno successivo. Se l’evento malattia si verifica nel corso di giorni festivi o prefestivi, il lavoratore può rivolgersi alla guardia medica.

Il datore di lavoro non è tenuto a riconoscere la parte di retribuzione a proprio carico se il certificato medico non rispetta le condizioni di cui sopra.

Nel momento in cui si verifica un’infermità che determina l’accesso al pronto soccorso o il ricovero ospedaliero, senza passare dal medico curante, il lavoratore deve richiedere la certificazione dell’evento alla struttura ospedaliera, attestante sia il periodo di degenza, sia una successiva prognosi di malattia. Anche in questo caso il certificato deve essere trasmesso all’INPS e il lavoratore è tenuto ad accertarsi della correttezza dei dati e dell’adeguato invio.

A seconda da quanto stabilito dal CCNL applicato e dal codice disciplinare, il datore di lavoro può avviare l’iter di contestazione disciplinare che può concludersi con irrogazione di una sanzione conservativa o, nei casi più estremi, con il licenziamento.

L’indennità di malattia a carico INPS spetta per un periodo massimo di 180 giorni per ogni anno (ovvero dal 01 gennaio al 31 dicembre) a decorrere dal 4° giorno di astensione lavorativa.

L’indennità INPS viene calcolata sulla retribuzione media giornaliera (RMG), in base ai giorni di malattia fruiti dal lavoratore:

– dal 4° al 21° giorno di malattia l’INPS eroga un’indennità pari al 50% RMGG;

dal 21° giorno in poi l’indennità corrisponde al 66,66% della RMGG.

 

Sono esclusi dall’indennità INPS:

– gli impiegati dei settori Industria, Credito e Assicurazioni;

– i lavoratori domestici;

– i viaggiatori e piazzisti;

– i portieri;

– i dipendenti di associazioni sindacali o partiti politici.

In base a quanto stabilito dal CCNL applicato, il datore di lavoro potrebbe dover retribuire il periodo c.d. di “carenza” (ovvero i primi 3 giorni di malattia) e l’integrazione dell’indennità INPS fino al raggiungimento del 100% della retribuzione.

Per alcuni settori come quello agricolo o edile l’integrazione dell’indennità di malattia è a carico di appositi enti di settore chiamati “Casse edili” o “Enti Bilaterali Agricoltura”.

Il periodo di comporto è l’arco di tempo durante il quale il lavoratore in malattia ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro.

La durata varia in base al contratto collettivo applicato.

Ai fini del computo del periodo di comporto non si tengono in considerazione le assenze per malattia imputabili al datore di lavoro come, ad esempio, quelle causate dalla nocività dell’ambiente lavorativo, per il mancato rispetto della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Inoltre, non vengono considerati, nel periodo di comporto, le assenze per infortunio e malattia professionale e i congedi per le cure oncologiche o le cure di invalidi civili con una riduzione della capacità lavorativa pari almeno al 50%.

Non vi è un obbligo ma generalmente la contrattazione collettiva prevede che, nei giorni antecedenti il termine del periodo di comporto, il datore di lavoro effettui una comunicazione al dipendente indicando la scadenza del periodo.

Inoltre tale comportamento, anche quando non imposto dalla contrattazione, rispetta i principi di correttezza e buona fede.

Al termine del periodo di comporto il lavoratore è tenuto a rientrare in azienda.

Se ciò non si verifica, si può procedere con il licenziamento o concedere un periodo di aspettativa.

Si, la sostituzione di lavoratori in malattia è una delle causali che permettono la stipulazione di contratti a termine.

In caso di infortunio il lavoratore è tenuto a darne immediata notizia al proprio datore di lavoro.

In occasione della visita medica a seguito dell’infortunio il lavoratore deve comunicare al medico che lo visita che l’evento causante il danno è avvenuto in occasione di lavoro, in modo che il medico possa redigere il relativo certificato attestando così l’inizio dell’infortunio.

Il datore di lavoro è obbligato ad accompagnare il lavoratore infortunato al pronto soccorso più vicino, in modo che possa essere svolta la visita medica e possano essere effettuate le cure necessarie. Le spese per il trasporto del lavoratore al pronto soccorso più vicino sono a carico del datore di lavoro, mentre le spese sostenute per i soccorsi di urgenza sono a carico dell’INAIL.

Entro 2 giorni di calendario dalla ricezione del certificato medico di infortunio da parte del lavoratore, il datore di lavoro, o lo Studio di consulenza che segue l’azienda, deve inoltrare all’INAIL la comunicazione/denuncia di infortunio (il termine di 2 giorni si riduce a 24 ore dall’evento in caso di morte o pericolo di morte).

Si consiglia dunque, nel momento in cui il datore di lavoro riceve il certificato medico di infortunio, di darne immediata notizia allo Studio di consulenza del lavoro inoltrandogli il modulo “SCHEDA INFORTUNIO” che si trova nella sezione “Modulistica” del sito internet.

L’INAIL eroga, nei confronti del lavoratore infortunato, un’indennità a partire dal 4° giorno di calendario successivo a quello dell’evento (infortunio), fino alla guarigione clinica.

L’indennità economica giornaliera viene erogata in misura differente, in base alle giornate:

  • dal 4° al 90° giorno di infortunio: indennità pari al 60% della retribuzione media giornaliera;
  • dal 91° giorno di infortunio: indennità pari al 75% della retribuzione media giornaliera.

Nel conteggio dei giorni rimane escluso il giorno nel quale avviene l’infortunio, che viene comunque retribuito al 100% dal datore di lavoro.

L’indennità INAIL può essere corrisposta direttamente al lavoratore oppure può essere anticipata dal datore di lavoro, il quale verrà successivamente rimborsato dall’istituto.

Il datore di lavoro è tenuto a retribuire totalmente al lavoratore infortunato la giornata in cui si è verificato l’infortunio, come se avesse regolarmente lavorato.

I successivi 3 giorni, sempre a carico del datore di lavoro, sono normativamente retribuiti nella misura del 60%, a meno che il CCNL non preveda condizioni di miglior favore.

Per i restanti giorni di infortunio, l’integrazione del datore di lavoro prevede una disciplina differente in base al CCNL applicato al rapporto di lavoro.

Il CCNL Alimentari industria prevede l’integrazione da parte del datore di lavoro fino al raggiungimento del 100% della normale retribuzione, fino alla completa guarigione.

Il CCNL Commercio e Terziario, invece, impone l’integrazione da parte del datore di lavoro fino al raggiungimento del 90% della normale retribuzione fino al 20° giorno di infortunio; per i giorni successivi l’integrazione è elevata al raggiungimento del 100% della normale retribuzione.

Se l’infortunio o la malattia hanno avuto una durata superiore ai 60 giorni continuativi, l’azienda incarica il medico competente al fine di sottoporre il lavoratore ad una visita medica per verificare se al termine di un lungo periodo di assenza sussiste l’idoneità specifica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni attribuite.

Nel caso in cui la visita non possa avvenire immediatamente, il periodo di tempo tra la cessazione della prognosi e la ripresa dell’attività lavorativa è considerato come aspettativa non retribuita.

Il soggetto che può effettuare l’operazione di comunicazione CIVA è il datore di lavoro o un suo delegato.

Per inserire una nuova delega prima di tutto è essenziale che il legale rappresentante sia associato alla ditta registrata in INAIL.

Per fare questo il legale rappresentante deve effettuare l’accesso al sito INAIL tramite SPID e dalla sezione “My Home” (in alto a destra) selezionare la voce “Associa ditta”.

Una volta che il legale rappresentante risulta associato alla ditta (potrebbe volerci qualche ora/giorno), si effettua nuovamente l’accesso con il proprio SPID personale e, sempre dalla sezione “My Home”, tramite la procedura “Gestione Utente à Gestione utenti e profili” l’utente selezionerà il proprio profilo di Legale Rappresentante dell’azienda e potrà così inserire il codice fiscale dell’incaricato “Consulente per le attrezzature e impianti – CIVA”.

Abbiamo predisposto una breve ma risoluta guida, corredata di screenshot, dell’iter procedurale appena esposto che potete scaricare dalla sezione “Modulistica” del nostro sito internet.

I c.d. “fringe benefit” sono beni, servizi o agevolazioni, che l’azienda offre per migliorare le condizioni lavorative dei propri dipendenti o per incentivarli alla produttività e a non lasciare il posto di lavoro.

Generalmente, la disciplina dei fringe benefits (se non è previsto un piano di welfare rivolto alla generalità dei dipendenti) viene fissata all’interno dei contratti individuali tra l’azienda ed il lavoratore dipendente.

I fringe benefit godono di una apposita disciplina fiscale.

I fringe benefits riguardano generalmente la concessione di autovetture aziendali, di un’abitazione, di un telefono cellulare, di prestiti agevolati, di soggiorni a prezzi agevolati in località turistiche, dell’assicurazione sulla vita, dell’iscrizione a circoli culturali, dell’acquisto di libri, di abbonamenti a teatro o al cinema, e altro.

Non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se questi sono complessivamente di importo non superiore, nel periodo d’imposta, a €258,23. Se, invece, i benefit superano tale soglia essi concorrono a formare il reddito imponibile e saranno sottoposti interamente a normale tassazione.

A titolo esemplificativo, concorrono al limite di esenzione:

  • I premi per assicurazioni extra-professionali
  • Le ceste natalizie
  • I viaggi premio concessi a singoli dipendenti
  • Le auto a uso privato o promiscuo
  • Il cellulare a uso privato
  • I prestiti
  • I servizi di trasporto ferroviario.

Per il solo 2024 il limite di cui sopra è elevato ad € 1.000 per la generalità dei lavoratori mentre è elevato a € 2.000 per i lavoratori con figli a carico (o per i quali di percepisce l’Assegno Unico Universale Figli).

Fra i fringe benefit più conosciuti e diffusi dobbiamo considerare senza dubbio i buoni pasto. Si tratta di mezzi di pagamento ad importo fisso che vengono consegnati ai lavoratori in sostituzione della mensa aziendale.

Si, i buoni pasto non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente – e sono quindi esclusi da imposizione contributiva e fiscale – fino ad un importo massimo giornaliero di:

€ 4 nel caso in cui si tratti di buoni cartacei;

€ 8 se sono in formato elettronico.

No, la discrezionalità data al datore di lavoro è quella di individuare una c.d. “categoria omogenea” di lavoratori alla quale è rivolto il benefit.

Una categoria omogenea può essere, ad esempio: la categoria degli operai, gli operai addetti al reparto XYZ, gli impiegati addetti al reparto qualità o al reparto commerciale, etc.

L’individuazione di una categoria omogenea composta da un solo lavoratore è da ritenersi non conforme con le disposizioni dell’Agenzia delle entrate.

Il lavoratore che abbia maturato almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro può richiedere (nel limite massimo del 70%), una sola volta nel corso del rapporto, l’anticipo del TFR maturato per:

  • l’acquisto della prima casa per sé o per i propri figli;
  • la necessità di sostenere spese sanitarie;
  • sostenere le spese durante i periodi di fruizione di specifici congedi.

Il datore di lavoro, salvo diversa previsione del contratto collettivo, deve soddisfare le richieste di anticipazione del TFR in ordine cronologico.

Nel caso il lavoratore che ha fatto richiesta non abbia i requisiti di cui sopra, il datore di lavoro potrà comunque concedere l’anticipo.

 

Può un datore di lavoro obbligare il lavoratore a versare il proprio TFR ad un Fondo di Previdenza Complementare?

No. Nonostante in molti casi il lavoratore abbia un oggettivo vantaggio a versare il proprio TFR in un Fondo di Previdenza Complementare (FPC), questo è una facoltà in capo unicamente al lavoratore. L’adesione alla previdenza complementare può avvenire unicamente su base volontaria.

Per maggiori approfondimenti si rinvia alla breve guida alla previdenza complementare presente nella sezione “La Previdenza Complementare” del presente sito internet.

No, le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro si applicano a tutti i lavoratori, anche autonomi e parasubordinati se svolgono la propria prestazione all’interno dell’impresa. Sono considerati lavoratori anche i tirocinanti ed i volontari.

Sono esclusi solamente i lavoratori domestici e familiari.

È considerato lavoratore colui che svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione.

Si, il lavoratore deve contribuire alla sicurezza sul luogo di lavoro, prendendosi cura della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, sulla base della formazione e delle istruzioni ricevute dal datore di lavoro, nonché dei mezzi disponibili.

In particolare, i lavoratori devono:

  • Contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
  • Osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale;
  • Utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e, nonché i dispositivi di sicurezza;
  • Utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione;
  • Segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi utilizzati (attrezzature, sostanze, DPI, ecc.), nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza;
  • Adoperarsi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;
  • Astenersi dal rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo;
  • Astenersi dal compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza o che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori;
  • Partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro;
  • Sottoporsi ai controlli sanitari previsti o comunque disposti dal medico competente.

Il DVR è un documento che individua i possibili rischi presenti in un luogo di lavoro e serve ad analizzare, valutare e cercare di prevenire le situazioni di pericolo per i lavoratori.

La valutazione dei rischi è un onere inderogabile del datore di lavoro. Per adempiere a tale obbligo il datore di lavoro ha la facoltà di farsi assistere da un professionista del settore.

Non c’è uno standard stabilito dalla legge, la scelta sulle modalità di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro. Gli unici indici di orientamento sono quelli dettati dai criteri di semplicità, brevità e comprensibilità.

È di fatto obbligo che il DVR riporti la data certa della sua redazione.

Il documento inoltre deve inoltre essere conservato in azienda e deve riportare la firma del datore di lavoro, del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), del medico competente e del Rappresentante dei Lavoratore per la Sicurezza (RLS).

Qualora gli ambienti lavorativi o i processi produttivi aziendali dovessero subire delle variazioni, oppure gli infortuni subiti dai lavoratori dovessero essere frequenti e rilevanti, i soggetti responsabili devono provvedere a modificare o a sostituire la precedente valutazione dei rischi e aggiornare le misure di prevenzione entro il termine di 30 giorni.

Si intende l’obbligo per il datore di lavoro di trasferire al lavoratore tutte le nozioni necessarie per identificare e gestire tutti i rischi (sia generici che specifici) connessi all’ambiente di lavoro e allo svolgimento dell’attività lavorativa.

L’obbligo di informazione può essere adempiuto con depliant, video, assemblee generali, volantini, incontri, lezioni in aula, avvisi in bacheca, assemblee di reparto, ecc.

Inoltre, deve essere predisposto un programma delle attività di informazione e modalità dedicate per i nuovi assunti.

No, lo scopo della formazione è quello di insegnare ai lavoratori le nozioni e le procedure indispensabili, finalizzate al conseguimento di quelle capacità che permettono agli stessi di lavorare riducendo i rischi e tutelando la sicurezza personale.

La formazione dei lavoratori neo-assunti deve avvenire anteriormente o, se ciò non risulti possibile, contestualmente all’assunzione. In quest’ultimo caso, ove cioè non risulti possibile completare il corso di formazione prima che il lavoratore sia adibito alla sua attività, il corso deve essere completato entro e non oltre 60 giorni dall’assunzione.

Lo stress lavoro-correlato è caratterizzato da uno squilibrio tra la percezione che una persona ha dei vincoli imposti dal suo ambiente e la percezione che ha delle risorse di cui dispone per affrontarli.

È uno dei rischi che il datore di lavoro deve valutare nel momento in cui effettua la valutazione dei rischi.

Ancora minimizzato e spesso trascurato, il rischio da stress lavoro-correlato negli ultimi anni è stato attenzionato dalla giurisprudenza anche a fronte dalle più recenti ricerche medico scientifiche che hanno dimostrato lo stretto legame tra le situazioni stressanti sul lavoro e l’aumento del rischio di malattie cardiovascolari e ictus.

No, si definisce burnout una sindrome da stress lavorativo, caratterizzata da esaurimento emotivo, irrequietezza, apatia, depersonalizzazione e senso di frustrazione. Frequente soprattutto nelle professioni ad elevata implicazione relazionale (medici, infermieri, insegnanti, assistenti sociali, ecc.).

L’INAIL tramite il proprio Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale ha messo a disposizione un tutorial che illustra la metodologia per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato.

https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/multimedia/video-gallery/videogallery_tutorialstresslavorocorrelato.html

Non esiste ad oggi una definizione universalmente riconosciuta di mobbing.  Riprendendo però alcune delle definizioni di derivazione giurisprudenziale, possiamo definire il mobbing come una: “serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Un’altra definizione di mobbing è quella individuata da Leymann che la definisce come “comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili”

Le conseguenze possono essere molto rilevanti. Tra le altre, si citano: distimia, calo dell’autostima, tendenza ad auto biasimarsi, insorgenza di stati d’ansia, fobie, disturbi del sonno, problemi digestivi e muscoloscheletrici. Si possono anche configurare disturbi specifici quali disturbo d’ansia generalizzato e disturbo da stress a carattere post-traumatico. Sul piano prevalentemente sociale, i danni si ripercuotono anche sulla vita privata della vittima, a livello di rapporti interpersonali e familiari e a livello economico, per la perdita del lavoro.

I fattori organizzativi che possono costituire favorire il mobbing sono:

  • Elevata richiesta di prestazione rispetto a mansioni con scarso grado di controllo da parte del lavoratore;
  • Assenza o carenza di informazione e formazione sul mobbing, che riduce la probabilità di riconoscere e segnalare le azioni che lo caratterizzano;
  • Assenza o carenza di formazione sulla leadership, combinata con assenza o carenza di strumenti di gestione del personale, che possono favorire l’adozione di azioni ostili e lesive;
  • Assenza o inefficacia di sistemi di gestione e riconoscimento del personale, che possono favorire l’adozione di azioni di mobbing “saltando” il riconoscimento dell’effettivo valore professionale;
  • Scarsa capacità e formazione sulla gestione dei conflitti interpersonali;
  • Scarsa qualità del rapporto tra il personale e la direzione e fra colleghi, che possono indurre ad azioni di mobbing verticale o orizzontale come modalità distorta di gestire i conflitti;
  • Scarsa chiarezza e conflitti di ruolo, condizioni che, generando incertezza su competenze e criteri di distribuzione dei carichi di lavoro, possono favorire la messa in atto di azioni mobbizzanti;
  • Una cultura organizzativa che tollera il mobbing o non lo riconosce;
  • Uno o più cambiamenti repentini nell’organizzazione o nell’attività lavorativa, che possono costituire “occasione opportuna” per favorire in generale la messa in atto delle azioni ostili sopra descritte;
  • Distribuzione iniqua dei carichi di lavoro, ovvero assenza o inefficacia di sistemi per la corretta distribuzione dei carichi di lavoro;
  • Assenza o carenza di procedure e strumenti per la segnalazione di casi di disagio lavorativo.

La violenza comprende generalmente gli insulti, le minacce o le forme di aggressione fisica o psicologica praticate sul lavoro.

Le molestie si verificano quando uno o più individui subiscono ripetutamente e deliberatamente abusi, minacce e/o umiliazioni in contesto di lavoro.

Si, in generale l’affissione del codice disciplinare nella bacheca aziendale è un adempimento essenziale per la legittimazione all’utilizzo del potere disciplinare del datore di lavoro.

È onere del datore di lavoro di provare che l’affissione del codice disciplinare è avvenuta prima del verificarsi dell’inadempimento oggetto di contestazione.

No, secondo i giudici di legittimità la mera consegna al lavoratore di copia del codice disciplinare al lavoratore al momento dell’assunzione e la disponibilità dello stesso nella bacheca digitale aziendale non adempie a tale obbligo.

Inoltre, l’affissione deve avvenire in luogo facilmente accessibile a tutti (c.d. obbligo di pubblicità del codice disciplinare).

Quando il comportamento da contestare riguarda violazione di norme di legge oppure comportamenti contrari al c.d. “minimo etico” allora la mancata affissione del codice non inficia il potere disciplinare del datore di lavoro.

Nell’ordinamento giuridico italiano il diritto alla difesa è inviolabile.

Nel rispetto di questi principi va letta la disposizione che impone la contestazione del fatto e la possibilità di difesa del lavoratore.

Non è mai possibile dunque licenziare un lavoratore senza il preventivo iter della contestazione disciplinare.

Salvo che il contratto collettivo non preveda tale possibilità, in generale non è possibile irrogare sanzioni che mutino in maniera permanente le condizioni di lavoro del lavoratore.

In generale non è possibile installare impianti audiovisivi dai quali possa derivare il controllo a distanza dei lavoratori.

Tuttavia in alcune circostanza è consentita l’installazione di tali impianti.

Tra le ipotesi che ne consentono l’installazione troviamo:

  •       esigenze organizzative e produttive;
  •       per esigenze di sicurezza sul lavoro;
  •       per esigenze di tutela del patrimonio aziendale.

Secondo l’interpretazione di dottrina e giurisprudenza ricadono in questa fattispecie:

  • impianti di videosorveglianza;
  • dispositivi mediante i quali si effettuano operazioni, ivi compresa la rilevazione dei dati;
  • programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi ad internet;
  • qualsiasi altra tecnologia che possa consentire un controllo a distanza.

 

Se ne ricorrono le condizioni allora è possibile l’installazione degli impianti, a patto che:

  • sia stato siglato un accordo con RSA/RSU, se presenti;
  • in caso di mancato accordo con RSA/RSU è possibile chiedere l’autorizzazione all’installazione all’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL).

No, la legge dispone che non è necessario l’accordo con la RSA/RSU o l’autorizzazione da parte dell’ITL per gli strumenti o le apparecchiature che servono al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Rientrano in tale categoria, generalmente, strumenti come i pc, i telefoni cellulari, i tablet.

È fortemente consigliata comunque la redazione di policy sull’uso degli strumenti di lavoro.

In generale no, non è possibile.

Tale possibilità si apre solamente se i lavoratori sono stati informati sulle regole di utilizzo e controllo degli strumenti informatici in loro dotazione (anche la casella email aziendale è considerata strumento di lavoro).

La redazione di una adeguata ed esaustiva policy sull’uso della posta elettronica e sui controlli che su questa potranno essere effettuati dal datore di lavoro è adempimento imprescindibile per poter utilizzare il potere di controllo e disciplinare.

No, nei casi di licenziamento derivanti da fatti e ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa la giurisprudenza ha affermato che, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, il datore di lavoro, nell’individuare il lavoratore da licenziare, deve utilizzare criteri oggettivi.

È a carico del datore di lavoro l’onere di aver agito in tal senso.

Il c.d. “obbligo di repêchage” o “obbligo di ripescaggio” è un principio individuato dai giudici che afferma che prima di procedere al licenziamento del lavoratore il datore di lavoro deve controllare che non vi siano mansioni, anche di livello inferiore, disponibili in azienda ed offrirgli tale possibilità.

No, la lavoratrice madre gode di una particolare tutela da quando essa si trova in stato di gravidanza fino al compimento di un anno di vita del figlio.

Durante questo periodo di tempo l’eventuale licenziamento intimato alla lavoratrice è nullo.

Le uniche eccezioni a questa tutela sono le seguenti:

  • Colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto;
  • Cessazione dell’attività aziendale;
  • Ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o scadenza del termine nei rapporti di lavoro a tempo determinato;
  • Esito negativo della prova.

No, le dimissioni devono essere presentate dal lavoratore unicamente in modalità telematica attraverso il sito istituzionale del Ministero del Lavoro (www.lavoro.gov.it).

Una eventuale assenza prolungata senza che siano state rese giustificazioni da parte del lavoratore e senza che siano pervenute al datore di lavoro le dimissioni telematiche a mezzo PEC, dovrà essere contestata tramite l’iter della contestazione disciplinare che potrà sfociare in un licenziamento se il caso di specie lo permette.

Si, la c.d. “tassa sul licenziamento” è sempre dovuta in tutti i casi in cui sia il datore a chiudere il rapporto di lavoro, anche quando “costretto”.

Si, le dimissioni rese dal lavoratore padre/madre durante i primi 3 anni di vita del figlio (per la madre anche durante il periodo di gravidanza) devono essere convalidate dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

I lavoratori di cui sopra devono fare richiesta di convalida all’Ispettorato Territoriale del Lavoro compilando l’apposito modulo online e producendo copia della lettera di dimissioni sottoscritta dal datore di lavoro.

I servizi competenti procedono alla convocazione personale del dipendente al fine di valutare l’effettiva e consapevole volontà di presentare le dimissioni.

In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento, la lavoratrice madre (e il lavoratore padre) ha diritto:

  • all’indennità sostitutiva del preavviso nella misura prevista in caso di licenziamento;
  • alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.

Si, una lavoratrice che intendesse lasciare il proprio posto di lavoro nel periodo intercorrente tra la data di richiesta delle pubblicazioni di matrimonio e un anno dalla celebrazione del matrimonio stesso, ha l’obbligo di convalidare le dimissioni presso l’ITL, in quanto ricade nel c.d. “periodo protetto”.

La procedura si compone di due step:

1)  Vengono effettuate le dimissioni telematiche come tutti i lavoratori;

2)  La dipendente richiede all’ITL la convalida di quelle dimissioni (entro 30 giorni dalle dimissioni rese in modalità telematica);

3) L’ITL convocherà il lavoratore e convaliderà le dimissioni;

4)  il lavoratore darà copia delle dimissioni convalidate al datore di lavoro.

Le dimissioni telematiche che non abbiano rispettato la procedura della convalida presso l’Ispettorato del Lavoro sono nulle.

No, la legge impone questa procedura solamente per le lavoratrici donne.

Si, ma solo se il lavoratore ha maturato tutti i requisiti per l’accesso al trattamento della pensione di vecchiaia (e non, dunque, anche per quei trattamenti pensionistici anticipati) e previo riconoscimento del preavviso.

I lavoratori sono liberi di decidere dove riunirsi. L’assemblea, dunque, può avere luogo sia all’interno, sia all’esterno dei locali aziendali. Ciò detto, non esiste in capo al datore di lavoro alcun obbligo di porre a disposizione i locali aziendali. Egli è però chiamato ad agire con spirito di collaborazione, correttezza e buona fede.

Generalmente, il datore di lavoro non ha interesse allo svolgimento dell’assemblea all’interno dei locali aziendali.

I lavoratori possono riunirsi in assemblea durante o fuori dall’orario di lavoro.

Nel caso in cui l’assemblea sia convocata durante l’orario di lavoro, ai lavoratori sono riconosciute 10 ore annue di permesso retribuito e in questo caso l’assemblea deve svolgersi all’interno dei locali aziendali.

Se, invece, viene svolta al di fuori dell’orario di lavoro può avvenire senza limiti di tempo e in locali diversi da quelli dell’azienda.

Se si riceve una visita da parte di un organo di vigilanza, bisogna rimanere calmi, cortesi e disponibili verso gli ispettori. Non avere comportamenti che ostacolino il procedimento ispettivo. Tale comportamento si configura come reato.

Inoltre, è assolutamente da evitare comportamenti quali l’alterazione e l’occultamento di documenti, fatti o persone.

Si consiglia inoltre di prendere nota di tutti i luoghi visitati, dei documenti richiesti e del materiale esaminato. Prendere inoltre nota di tutte le informazioni richieste dal funzionario e delle risposte fornite. Se qualcosa non è chiaro chiedere sempre delucidazioni.

Gli ispettori hanno facoltà di visitare ogni luogo dell’azienda, a qualunque ora del giorno e della notte.

Le attività dei funzionari ispettivi si possono riassumere come segue:

  • individuazione dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro;
  • acquisizione di documentazione aziendale in materia di lavoro tenuta in azienda;
  • acquisizione delle dichiarazioni dei lavoratori;
  • verifica del rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro quando ad esempio si tratta di vigilanza tecnica nei cantieri.
  • Si, durante questa fase non è consentita la presenza né del datore di lavoro, né del professionista che lo assiste. Questo per evitare condizionamenti da parte del lavoratore e garantirne la spontaneità.

Al termine dell’ispezione viene rilasciato dall’ispettore il verbale di primo accesso che riassume le operazioni, le dichiarazioni raccolte e quanto osservato dallo stesso.

Successivamente, nel caso in cui fossero stati riscontrati elementi passibili di sanzioni, l’organo di vigilanza rilascerà il “verbale unico di accertamento e notificazione” che contiene:

  • i motivi che hanno condotto a sanzionare il datore di lavoro;
  • la diffida a regolarizzare e le sanzioni da pagare;
  • gli strumenti di difesa del datore di lavoro.

In generale, il cittadino extracomunitario per poter lavorare deve essere in possesso di permesso di soggiorno idoneo.

I permessi di soggiorno che consentono di svolgere attività lavorativa includono:

  •       Lavoro subordinato
  •       Lavoro autonomo
  •       Lavoro stagionale (per attività stagionali)
  •       Motivi familiari
  •       Richiesta protezione internazionale (dopo 60 giorni dalla richiesta)
  •       Asilo politico
  •       Apolidia
  •       Attesa occupazione
  •       Studio, tirocini formativi (consente di lavorare part time fino a 20 ore settimanali)
  •       Permesso soggiorno UE di lungo periodo
  •       Permesso per titolari carta Blu UE
  •       Residenza elettiva
  •       Assistenza minori (art. 31 T.U. Immigrazione) (consente di lavorare ed è convertibile in permesso per lavoro)
  •       Per atti di particolare valore civile (consente di lavorare ed è convertibile in permesso per lavoro)
  •       Protezione speciale (consente di lavorare ed è convertibile in permesso per lavoro)

Alcuni permessi, come quelli per motivi religiosi, richiesta asilo (nei sessanta giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale), minore età, cure mediche, non consentono l’esercizio di un’attività lavorativa in Italia.

Cosa fondamentale è che il lavoratore abbia fatto richiesta di rinnovo almeno 60 giorni prima della scadenza del permesso. Se il lavoratore ha la richiesta di permesso con la ricevuta rilasciata dalla questione o dall’ufficio postale allora è possibile assumere quel lavoratore o, se già in forza, continuare a farlo lavorare regolarmente in azienda.

Il contratto a tempo determinato è un contratto nel quale datore di lavoro e lavoratore hanno deciso di apporvi un termine preciso e predeterminato.

La durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato è 24 mesi.

Dipende. È possibile allungare il contratto (sempre nel limite dei 24 mesi) inserendo una data successiva a quella inserita in precedenza ma per un massimo di 4 volte.

È possibile invece recedere anticipatamente da un contratto a termine solamente attraverso una risoluzione consensuale.

In generale si, a meno che i lavoratori sostituiti non siano assenti per:

  • Sciopero;
  • In cassa integrazione.

Salvo diversa previsione della contrattazione collettiva applicata in azienda, il limite massimo di lavoratori a tempo determinato che un’azienda può avere in forza è il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al primo gennaio dell’anno di assunzione.

In caso di violazione del limite percentuale, è prevista una sanzione amministrativa del

  • 20% della retribuzione, per ciascun mese di durata del rapporto di lavoro, se si tratta di un solo lavoratore assunto in eccedenza;
  • 50% della retribuzione, qualora la violazione si riferisca a due o più lavoratori assunti in eccedenza

Detto anche “lavoro a chiamata” o “job on call” è un contratto, anche a tempo determinato, che non ha un preciso predeterminato e predeterminabile in quanto la prestazione lavorativa richiesta è discontinua.

No, il contratto collettivo può individuare i casi di utilizzo di questa tipologia contrattuale. Se il contratto collettivo non disciplina il lavoro intermittente non individuandone i casi in cui è ammesso, allora si farà riferimento al R.D. 2657/1923.

In ogni caso è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro intermittente con soggetti che:

  • non hanno ancora compiuto 24 anni (purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno di età);
  • hanno più di 55 anni.

Si, ogni lavoratore non può lavorare per più di 400 giornate in un triennio mobile (per “lavorare” si intende le giornate di lavoro effettivo e non la durata del contratto).

Questo limite non vale per il settore del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

Salvo che il datore di lavoro non abbia richiesto al lavoratore la garanzia di disponibilità a rispondere alle chiamate, il lavoratore viene retribuito solamente per il lavoro effettivamente svolto.

Si, anche il lavoratore a chiamata, come ogni altro lavoratore, matura tutti i ratei.

A parità di ore lavorate di un lavoratore a tempo pieno assunto per le medesime mansioni no, non vi è alcun risparmio per il datore di lavoro.

Il vantaggio è nel poter gestire il suo orario di lavoro in maniera estremamente flessibile.

La modalità più semplice risulta essere quella della compilazione del file pdf “Uni_intermittenti” che si trova nella sezione “Modulistica” del sito internet che contiene anche le istruzioni per la sua compilazione.

Una volta compilato correttamente il file pdf bisognerà inoltrare il relativo file xml all’indirizzo PEC intermittenti@pec.lavoro.gov.it . Per l’invio utilizzare una email semplice, non è necessario l’invio dalla propria PEC.

Un’altra modalità di invio è “Comunicazioni intermittenti” presente nella sezione “Servizi Lavoro” nella “Home page” del sito https://servizi.lavoro.gov.it/Public/login?retUrl=https://servizi.lavoro.gov.it/&App=ServiziHome  (è necessario il possesso dello SPID o della Carta di Identità Elettronica (CIE). Una volta effettuato l’accesso per la prima volta come cittadino, dalla “Home page” della propria area riservata, dalla voce “Gestione Profili” cliccare su “Associa profilo” e ricercare la propria ditta attraverso il codice fiscale e seguire l’iter procedurale proposto dal sito istituzionale.

Nella sezione “Modulistica” del nostro sito troverete anche il “Manuale Azienda” predisposto dal Ministero del Lavoro che spiega in modo semplice, anche con l’ausilio di screen-shot, il funzionamento della “Gestione profili” di cui sopra.

Una volta associata l’azienda, vi apparirà nella “Home page” della vostra area riservata la funzione chiamata “Intermittenti” dalla quale potrete gestire le chiamate dei lavoratori.

Icona del servizio “Intermittenti” presente nella “Home page” della propria area riservata del sito https://servizi.lavoro.gov.it/

No, dal momento in cui si raggiunge la soglia dei 15 lavoratori si ha tempo 60 giorni per effettuare l’assunzione utile alla copertura della quota di riserva.

Nel caso in cui non si riuscisse ad ottemperare a tale obbligo entro la scadenza prevista, va richiesta una apposita convenzione nella quale vengono stabiliti sia i tempi che le modalità delle assunzioni che il datore di lavoro si impegna ad effettuare. Mentre la convenzione è in vigore, il datore di lavoro non è considerato “scoperto” e dunque non è sanzionabile.

Sì, è vero. A determinate condizioni (sia sulla base del soggetto assunto sia sulla base del contratto con esso stipulato) sono previsti importanti sgravi contributivi e sono fruibili anche dalle aziende che non sono soggette all’obbligo.

Tuttavia va precisato che questi sgravi sono disponibili “fino ad esaurimento fondi” (consultabili attraverso una precisa procedura INPS) e che spesso questi fondi si esauriscono molto rapidamente in quanto sempre insufficienti rispetto alle richieste.

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