Retribuzione e contrattazione collettiva: introduzione
Il tema della retribuzione proporzionata e sufficiente è da sempre uno dei pilastri del diritto del lavoro italiano. Non a caso, l’articolo 36 della Costituzione sancisce che il lavoratore ha diritto a una paga “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Questo principio, tuttavia, si è spesso scontrato con la realtà del mercato del lavoro. La mancanza di una legge sulla rappresentanza sindacale e la diffusione di contratti collettivi non rappresentativi, i cosiddetti “contratti pirata”, hanno generato fenomeni di dumping contrattuale. In questi casi, la concorrenza si gioca sul ribasso dei salari, a scapito della dignità dei lavoratori e della leale competizione tra imprese.
Negli ultimi anni il dibattito politico si è diviso tra due strade: da un lato l’ipotesi di introdurre un salario minimo legale, sostenuta dalle opposizioni, dall’altro il rafforzamento della contrattazione collettiva come strumento primario di tutela. Con la recente approvazione in Senato della Legge delega su retribuzione e contrattazione collettiva, il Governo ha scelto la seconda via.
Retribuzione e contrattazione collettiva: finalità dell’articolo
Questo contributo intende offrire un’analisi chiara e completa della nuova Legge delega, spiegandone le origini, i contenuti e le prospettive applicative.
In particolare, verranno ripercorsi:
- i cenni storici sull’articolo 36 e il ruolo che ha avuto nella costruzione del diritto del lavoro italiano;
- le ragioni per cui, nonostante il suo valore, esso ha trovato applicazione limitata nella prassi, soprattutto a causa della proliferazione di contratti collettivi “pirata”;
- il dibattito parlamentare e sociale sulla proposta del salario minimo legale;
- i contenuti della Legge delega e i criteri direttivi affidati al Governo;
- le criticità ancora aperte, con particolare attenzione all’assenza di una normativa sulla rappresentanza sindacale.
L’obiettivo è duplice: da un lato informare in modo tecnico e preciso, dall’altro favorire un dibattito consapevole su una riforma che potrebbe incidere in maniera significativa sul sistema delle relazioni industriali e sulla condizione economica dei lavoratori in Italia.
Retribuzione, contrattazione collettiva e articolo 36 della Costituzione
L’articolo 36 della Costituzione italiana rappresenta uno dei cardini della tutela del lavoratore nel nostro ordinamento. È composto da più commi: il primo sancisce il diritto alla retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro” e “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il secondo e il terzo stabiliscono limiti alla durata della giornata lavorativa, il riposo settimanale e le ferie retribuite.
Origini e contesto storico
Durante i lavori dell’Assemblea Costituente del 1946-47, il principio della retribuzione adeguata fu oggetto di intenso dibattito. Nella seduta del 26 ottobre 1946, il testo originario parlava di “adeguata alle necessità personali e familiari”, ma intervenne il Comitato di redazione che affiancò il termine sufficiente, spostando l’attenzione dal mero soddisfacimento dei bisogni al concetto di dignità nella vita del lavoratore.
In altre parole, l’articolo 36 non si limita a dichiarare un principio astratto: intende fissare un parametro minimo imperativo, in linea con lo spirito della Carta, che protegga il lavoratore non solo dal salario iniquo, ma da una condizione di precarietà che comprometta la dignità esistenziale.
Il principio della proporzionalità e della sufficienza
Due sono i pilastri del diritto retributivo costituzionale:
- Proporzionalità: la retribuzione deve tener conto non soltanto delle ore lavorate, ma anche della qualità del servizio prestato (competenze, responsabilità, complessità).
- Sufficienza: la retribuzione non può essere al di sotto di una soglia che permetta al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Il bilanciamento tra questi due concetti è complesso: non si tratta solo di un’astrazione, ma di un criterio che deve tradursi in scelte concrete in sede di giudizio e contrattazione.
Interpretazione giurisprudenziale: il “sindacato del giudice”
In assenza di una legge che definisca in modo vincolante cosa sia “sufficiente”, la giurisprudenza ha riconosciuto al giudice del lavoro un ruolo attivo. Il giudice, in caso di controversia, può verificare se la retribuzione applicata è compatibile con i principi costituzionali, anche correggendo l’assetto contrattuale, se necessario, sulla base di parametri esterni, tra cui le retribuzioni previste dai CCNL maggiormente rappresentativi.
Tuttavia, la conformità al principio dell’art. 36 non è automatica: il riferimento al CCNL costituisce una presunzione relativa, che può essere superata da elementi contrari (ad esempio costi della vita locale, condizioni economiche del settore, dati statistici).
Nonostante il valore normativo e simbolico dell’art. 36, la sua efficacia concreta resta attenuata da una serie di fattori:
- la mancanza di una soglia univoca nazionale per la retribuzione minima rende difficile l’applicazione uniforme;
- la proliferazione di contratti collettivi non pienamente rappresentativi o “pirata” indebolisce la funzione dei CCNL come parametri di riferimento;
- la variabilità territoriale del costo della vita e le diversità settoriali complicano l’individuazione di soglie “sufficienti” universalmente applicabili;
- la limitata capacità del sistema giudiziario e ispettivo di monitorare e intervenire efficacemente nei casi di retribuzioni eccessivamente basse.
In definitiva, l’articolo 36 fissa un obbligo costituzionale forte, ma la sua traduzione in dispositivi operativi capaci di garantire retribuzioni dignitose in tutti i contesti ha incontrato finora ostacoli strutturali.
Le criticità del modello attuale: contratti “pirata” e dumping contrattuale
Nel panorama delle relazioni industriali italiane, uno dei fenomeni più insidiosi è quello dei contratti collettivi “pirata”. Con questa espressione si indicano accordi contrattuali sottoscritti da sindacati o associazioni datoriali marginali, scarsamente rappresentativi o addirittura fittizi, che propongono condizioni economiche e normative peggiori rispetto ai contratti collettivi maggiormente applicati.
Definizione e logica del contratto “pirata”
Un contratto collettivo “pirata” può essere pensato come un “falso competitor”: il suo obiettivo non è rappresentare adeguatamente interessi reali di lavoratori e imprese, bensì competere al ribasso, offrendo condizioni più svantaggiose per attrarre aziende che desiderano contenere i costi del lavoro. In sostanza, esso veicola un meccanismo di dumping contrattuale: riduce artificialmente il “prezzo del lavoro” nelle imprese che vi aderiscono, a scapito dei lavoratori stessi e delle imprese che rispettano contratti più “forti”.
Questa pratica può assumere diverse modalità, tra cui:
- applicazione di tabelle salariali inferiori con retribuzioni minime più basse;
- riduzione di norme accessorie (permessi, ferie, welfare contrattuale) rispetto agli standard dei CCNL maggiori;
- diffusione del contratto “pirata” in settori con minori livelli di controllo, appalti e filiere complesse.
Meccanismi del dumping contrattuale
Nel concreto, il dumping contrattuale si realizza attraverso vari passaggi:
- Scelta del contratto pirata: l’impresa decide di aderire a un contratto meno vincolante, perché offre minimi salariali e condizioni più restrittive.
- Competizione sleale: le aziende che rispettano contratti “forti” si trovano a competere con imprese che operano con costi del lavoro più bassi, a parità di altri fattori.
- Erosione dei livelli salariali: nel mercato può emergere la “norma bassa”, cioè l’aspettativa che i salari siano sempre più compressi verso il basso.
- Allargamento del fenomeno: dato il vantaggio competitivo, sempre più imprese potrebbero scegliere contratti pirata, ampliando la diffusione del fenomeno.
Questo ciclo crea un circolo vizioso che mina l’efficacia dei CCNL maggiormente applicati, in quanto la pressione al ribasso si innesta sulla struttura contrattuale esistente.
Impatti sui lavoratori, sulle imprese e sul mercato del lavoro
Gli effetti del fenomeno sono molteplici:
- Per i lavoratori: minori retribuzioni, peggiori condizioni normative, limitata accessibilità a strumenti di welfare contrattuale, ridotta protezione
- Per le imprese virtuose: penalizzazione competitiva, rischio di perdere gare d’appalto se i costi del lavoro non risultano “convenienti” rispetto a chi usa contratti pirata
- Per il mercato del lavoro nel suo complesso: aumento delle disuguaglianze, destabilizzazione delle relazioni industriali e difficoltà nel garantire un livello minimo retributivo credibile in tutti i settori
Ad esempio, il CNEL ha segnalato che l’analisi comparativa di diversi CCNL nel settore del commercio ha messo in luce scostamenti significativi tra le retribuzioni offerte da contratti firmati da sindacati più rappresentativi rispetto a quelli sottoscritti da sigle minori, certificando così l’esistenza del fenomeno del dumping contrattuale.
La proposta del salario minimo legale: origini, contenuti e ostacoli
Il tema del salario minimo legale ha occupato a lungo il dibattito politico e sindacale in Italia. A differenza di molti Paesi europei, il nostro ordinamento non prevede una soglia oraria stabilita per legge, affidando la tutela salariale principalmente alla contrattazione collettiva.
Negli ultimi anni, soprattutto a seguito delle difficoltà economiche e dell’aumento del lavoro povero, l’opposizione parlamentare ha avanzato più volte proposte di legge volte a fissare un minimo orario garantito, indicato spesso nella soglia di 9 euro lordi all’ora. Questa cifra è stata ritenuta sufficiente per garantire condizioni di vita dignitose ed è stata considerata coerente con le linee europee in materia di adeguatezza salariale.
Le ragioni a favore
I sostenitori del salario minimo legale hanno posto l’accento su alcuni punti:
- garantire una tutela uniforme a tutti i lavoratori, anche a quelli non coperti da contratti collettivi;
- contrastare il fenomeno dei contratti pirata, che fissano retribuzioni molto al di sotto dei minimi stabiliti nei CCNL più rappresentativi;
- ridurre le disuguaglianze e arginare l’espansione del lavoro povero, soprattutto nei settori a bassa qualificazione.
Le critiche e le resistenze
La proposta ha incontrato forti resistenze. Le parti datoriali e una parte del sindacato hanno sottolineato che:
- un salario minimo imposto per legge rischierebbe di indebolire la funzione della contrattazione collettiva, pilastro del nostro sistema;
- la fissazione di una soglia unica potrebbe non tenere conto delle differenze territoriali e settoriali, né della diversa incidenza del costo della vita;
- l’aumento dei costi del lavoro per le imprese meno strutturate potrebbe tradursi in una riduzione dell’occupazione regolare, alimentando paradossalmente il lavoro sommerso.
Perché la strada è stata accantonata
Alla luce di queste criticità, il legislatore ha scelto di non introdurre un salario minimo orario per legge. La recente Legge delega ha invece imboccato la strada di un rafforzamento dei CCNL maggiormente applicati, considerati lo strumento più idoneo a coniugare tutela del lavoratore e autonomia collettiva.
La Legge delega approvata: struttura, obiettivi e principi direttivi
Il 24 settembre 2025 il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge delega in materia di retribuzione e contrattazione collettiva. Il testo rappresenta la risposta politica alla questione salariale, archiviando l’ipotesi del salario minimo legale e scegliendo di rafforzare gli strumenti esistenti.
La Legge delega attribuisce al Governo il compito di adottare, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi diretti a garantire una piena attuazione dell’articolo 36 della Costituzione. In particolare, vengono fissati obiettivi generali e criteri direttivi che orienteranno l’intervento normativo.
Gli obiettivi dichiarati
Gli obiettivi principali possono essere riassunti in quattro direttrici:
- assicurare retribuzioni giuste ed eque, in linea con i principi costituzionali;
- contrastare il lavoro sottopagato e i fenomeni di dumping contrattuale;
- stimolare il rinnovo periodico dei contratti collettivi nazionali;
- rafforzare la trasparenza salariale, sia nei rapporti individuali sia a livello sistemico.
Puoi leggere il testo integrale della legge delega, cliccando qui.
I principi direttivi
Per conseguire tali obiettivi, la delega stabilisce che i decreti legislativi dovranno rispettare specifici criteri:
- identificare i CCNL maggiormente applicati come parametro di riferimento per determinare i trattamenti economici complessivi minimi;
- estendere tali trattamenti anche ai lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, tramite il contratto più affine;
- introdurre obblighi negli appalti e subappalti, imponendo il rispetto dei minimi contrattuali di settore;
- promuovere la contrattazione di secondo livello per rispondere alle differenze territoriali e al caro vita;
- rafforzare la trasparenza, rendendo obbligatoria l’indicazione del codice del contratto applicato in UniEmens, comunicazioni obbligatorie e buste paga;
- prevedere incentivi al rinnovo dei CCNL e meccanismi di intervento del Ministero del lavoro in caso di contratti scaduti;
- potenziare la vigilanza sulle cooperative e introdurre forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili.
Una cornice di principi
La Legge delega non introduce direttamente nuove regole operative: fornisce invece una cornice di principi destinata a guidare i futuri decreti legislativi. Si tratta di una scelta che lascia margini di flessibilità al Governo, ma che richiederà grande attenzione nella fase attuativa per evitare soluzioni frammentarie o inefficaci.
Retribuzione e CCNL maggiormente applicati
Il punto di partenza è il riconoscimento dei contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati come parametro di riferimento. Per ciascuna categoria di lavoratori, dovrà essere identificato il CCNL prevalente in base al numero di imprese e di dipendenti. Il trattamento economico minimo previsto da questi contratti diventerà la condizione inderogabile da garantire ai lavoratori, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.
Appalti e subappalti: nuovi obblighi retributivi
Un secondo intervento di rilievo riguarda gli appalti di servizi. Le imprese appaltatrici e subappaltatrici saranno tenute a riconoscere ai lavoratori coinvolti nell’esecuzione dell’appalto trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dal CCNL maggiormente applicato nel settore. Tale previsione mira a contrastare pratiche elusive e a rafforzare i controlli delle stazioni appaltanti
Estensione dei trattamenti minimi ai settori scoperti
La delega prevede l’estensione dei trattamenti minimi anche a gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva. In questi casi si applicherà il contratto collettivo nazionale della categoria più affine, così da garantire uniformità di tutela e impedire zone “franche” prive di standard retributivi minimi.
Trasparenza e strumenti di misurazione
Per migliorare la trasparenza salariale, sarà introdotto l’obbligo di indicare il codice del CCNL applicato in tutti i principali flussi informativi: UniEmens, comunicazioni obbligatorie e buste paga. Questo sistema consentirà di monitorare con maggiore precisione l’applicazione dei contratti e di legare l’accesso ad agevolazioni contributive e fiscali alla corretta scelta del CCNL.
Incentivi al rinnovo e intervento del Ministero
La Legge delega mira a stimolare il rinnovo tempestivo dei CCNL, prevedendo strumenti a sostegno delle parti sociali e possibili incentivi economici a favore dei lavoratori. Nei casi di contratti scaduti e non rinnovati entro i termini concordati, il Ministero del lavoro potrà intervenire direttamente, fissando i trattamenti economici minimi complessivi da garantire, prendendo a riferimento i contratti maggiormente applicati nei settori affini.
Vigilanza sulle cooperative e partecipazione dei lavoratori
Un ultimo aspetto riguarda il rafforzamento della vigilanza sul sistema cooperativo, con particolare attenzione alle revisioni periodiche volte a verificare l’effettiva natura mutualistica. Inoltre, viene introdotto il principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell’impresa, in un’ottica di valorizzazione dell’interesse comune tra datore di lavoro e dipendenti.
Valutazioni critiche e questioni aperte
La Legge delega in materia di retribuzione e contrattazione collettiva rappresenta un passo importante, ma non privo di criticità. Pur fissando principi condivisibili, la riforma lascia aperti numerosi interrogativi circa l’attuazione concreta e l’efficacia delle misure.
L’assenza di una legge sulla rappresentanza
Il punto più problematico resta la mancanza di una disciplina sulla rappresentanza sindacale e datoriale. Senza criteri certi per individuare i soggetti legittimati a stipulare i CCNL “maggiormente applicati”, il rischio è che continuino a proliferare contratti “pirata”, utilizzati come strumento di concorrenza al ribasso. La riforma, pur dichiarando di voler contrastare il dumping, non elimina questa zona grigia.
Efficacia degli strumenti di trasparenza e controllo
L’obbligo di indicare il codice CCNL nei flussi UniEmens e nelle buste paga rappresenta un importante passo avanti. Tuttavia, la reale efficacia di questa misura dipenderà dalla capacità di incrociare i dati e di rafforzare i controlli ispettivi. Senza un adeguato sistema di vigilanza, il rischio è che l’obbligo resti un adempimento meramente formale.
Tempi e sfide attuative
Infine, un ulteriore elemento critico riguarda i tempi. La delega affida al Governo solo sei mesi per l’adozione dei decreti legislativi. Si tratta di un arco temporale molto breve per intervenire su un tema complesso e strutturale come quello delle retribuzioni. Il rischio è che, in assenza di un dialogo serrato con le parti sociali, i decreti risultino parziali o difficilmente applicabili.
Conclusione
La recente approvazione della Legge delega in materia di retribuzione e contrattazione collettiva segna un passaggio cruciale per il diritto del lavoro italiano. Dopo anni di discussioni sul salario minimo legale, il legislatore ha scelto di puntare sulla contrattazione collettiva come strumento cardine per garantire retribuzioni proporzionate e dignitose, nel solco dell’articolo 36 della Costituzione.
La riforma ha il merito di affrontare alcuni nodi storici: i contratti “pirata”, il dumping contrattuale, la mancanza di trasparenza salariale. Stabilisce principi chiari, come il riferimento ai CCNL maggiormente applicati e l’estensione dei minimi retributivi anche ai settori non coperti. Introduce, inoltre, strumenti per incentivare i rinnovi contrattuali e rafforzare i controlli negli appalti e nel sistema cooperativo.
Tuttavia, le criticità non mancano. La mancata regolamentazione della rappresentanza rischia di lasciare aperto lo spazio a comportamenti elusivi, mentre i tempi stretti per l’adozione dei decreti legislativi sollevano dubbi sull’efficacia della fase attuativa. La sfida sarà quella di coniugare la tutela dei lavoratori con la sostenibilità delle imprese, garantendo al contempo una reale valorizzazione della contrattazione collettiva.
In questo senso, la Legge delega può rappresentare tanto un’opportunità quanto un banco di prova: se attuata con coerenza e responsabilità, potrà rafforzare il modello italiano di relazioni industriali; se applicata in modo frammentario, rischia di rimanere un guscio vuoto.
Autore dell’articolo – Marco Campesato: esperto di diritto del lavoro e della previdenza sociale di Studio Campesato – Consulente del lavoro a Vicenza
